Thursday, August 03, 2006

Pause

Mi ricordo che una volta mi alzavo alle sei e mezza spaccate, tutti i giorni tranne la domenica. Una routine perfezionata in cinque anni di liceo: sette e dieci, ero alla fermata del bus in centro paese; con Nicole che si lamentava del freddo d'inverno, con Luca che dal secondo anno arrivava sempre in anticipo come per uscire di casa il prima possibile.

E' successo anche a me, di non riuscire ad aspettare in casa che qualcuno mi passasse a prendere: dieci minuti prima, venti minuti prima, "ciao, io vado ad aspettare in cima alla salita" - e la porta d'ingresso che mai mi sarei permessa di sbattere: all'interno ha la maniglia, ma fuori un pomello di bronzo che non sta in una mano. A volte freddo, a volte lucido, a volte ci stavo attaccata un secondo di troppo, ma poi ero fuori: che sollievo, senza motivo.

Pensare che odio stare ad aspettare il bus perché è un tempo morto, sprecato. Allora meglio camminare. Ma in un anno di aeroporti e pullman inglesi, ho imparato che non è poi male stare un giorno in viaggio a non pensare. A non leggere, non scrivere, non parlare con nessuno. Solo check-in, attese, e tutte le cose nelle edicole di Luton, nei negozi borghesi di Caselle, nell'atrio impossibile di Stansted. Pausa.

Come stare ad aspettare in cima alla salita: guardavo il campo da una parte, la siepe dall'altra, mi dava fastidio se un qualche conoscenza passando per caso si fermava a salutare. No, non ho bisogno di un passaggio, sì, saluto a casa, arrivederci, grazie, lasciatemi in pace.

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